Venerdì 11 gennaio è la data che sancisce i vent’anni dalla scomparsa di Fabrizio De André (il 18 febbraio avrebbe compiuto 79 anni). Ciò che colpisce di questa ricorrenza è il sentimento al tempo stesso di perdita e di presenza perché la sua opera e il suo pensiero rimangono intatte nella sfida del tempo rinnovandosi nel passaggio tra le generazioni.
Basta pensare al successo che sta incontrando The André, un ragazzo che con la voce praticamente identica a quella di Faber, il soprannome creato dal suo fraterno amico Paolo Villaggio, rilegge con stile cantautorale i brani più celebri della trap italiana. E’ quello che succede ai grandi autori che sono riusciti a dare alla loro opera un valore universale, a interpretare sentimenti collettivi.
Certo oggi, in questa epoca così travagliata, la mancanza del suo pensiero si fa più acuta. Resta la grande lezione di un canzoniere che è un simbolo di attenzione per chi di solito attenzione non ha, quegli ultimi della società che sono i veri protagonisti di un canzoniere dal valore inestimabile. Fabrizio De André è stato un intellettuale dotato di una voce straordinaria che si è votato alla musica dopo il successo ottenuto da Mina con “La canzone di Marinella”, (“senza di lei sarei stato un pessimo avvocato” raccontò) e che, come accade appunto solo con i grandi autori, ha portato fino a vette creative mai più raggiunte, il tessuto creativo generato dalla scuola genovese, quella di Tenco, Bindi, Paoli, Lauzi.
De André aveva una straordinaria capacità di rielaborare i materiali, fossero le canzoni di Brassens (“Il gorilla”), l’antologia di Spoon River, l’opera di Edgar Lee Master da cui ha tratto “Non al denaro non all’amore né al cielo”, un album del 1971 che ancora oggi rimane tra i capolavori assoluti della musica italiana, le intuizioni di chi gli lavorava vicino. Come quella di Mauro Pagani che, nel 1984, lo ha portato nei territori della World Music, in un viaggio attraverso le musiche del mediterraneo che ha generato “Creuza de ma”. (Ansa)