Alle 12.45 del 18 settembre 1970 il dottor John Bannister, medico del St Mary Abbot’s Hospital di Londra, dichiarava morto Jimi Hendrix. Dieci giorni dopo, una volta effettuata l’autopsia, il coroner Gavin Thurston stabilì che la causa della morte era l’asfissia: Hendrix era stato soffocato dal proprio vomito durante il sonno indotto da una dose eccessiva di barbiturici. Tuttavia, vista la mancanza di chiare evidenze, il verdetto sulla morte di uno dei geni della musica del ‘900 è rimasto aperto. James Marshall Hendrix, per sempre Jimi, avrebbe compiuto 28 anni il 27 novembre.
Come tutta la sua vita, anche la sua stupida morte prematura è avvolta nel mito: più d’uno ha raccolto materiale per dimostrare che le leggerezze e gli errori che hanno portato al decesso fossero tutt’altro che casuali. La tesi del complotto poggia su un dato provato: Hendrix finanziava le Black Panther e per questo era spiato dall’onnipresente FBI di J.Edgar Hoover.
Dunque quella notte maledetta sarebbe stato aiutato a morire con la complicità, volontaria o meno, di Monika Danneman, la donna con cui ha passato la sua ultima notte e che in seguito dichiarò che il suo partner prima di addormentarsi per l’ultima volta aveva preso nove pasticche di Vesparax, un sonnifero non più in commercio, una dose 18 volte superiore a quella consigliata. Il racconto lacunoso della Danneman, le sue incertezze nel chiamare l’ambulanza, i soccorsi tutt’altro che impeccabili, sommati ai files dell’FBI e al verdetto aperto dell’autopsia sono gli elementi a supporto della teoria di un complotto che, come tanti altri, sembra più un tentativo di spiegare la fine assurda di un genio che un fatto reale.
Quello che è certo, invece, è che Jimi Hendrix è una delle vittime più illustri di un business senza scrupoli, che, grazie a contratti capestro, lo sfruttava senza pietà, costringendolo a una massacrante routine di concerti, in attesa di tornare a riprendere possesso della propria musica. Basta pensare che le vicende legali per la gestione del catalogo e dei diritti si sono chiuse definitivamente nel 2009.
In questo mezzo secolo così carico di innovazioni e svolte radicali, la musica di Jimi Hendrix è rimasta attuale, ancora oggi, per esempio, sono in pochi a dubitare del fatto che sia stato il più grande chitarrista della storia del rock. La sua carriera di star è una luce abbagliante durata solo quattro anni. Tutto comincia a Londra nel 1966 e tutto finirà qui, nel 1970, nella città che lo aveva fatto conoscere in tutto il mondo.
In città ci arriva da perfetto sconosciuto, per un’intuizione di Chas Chandler, l’ex bassista degli Animals che diventerà il suo produttore e mentore. Jimi ha alle spalle una durissima gavetta nei circuiti minori dell’America segregata nei primi anni ’60. In quegli anni sulla scena di Londra ci sono chitarristi come Eric Clapton, Jeff Beck, Jimmy Page, Pete Townshend, per non dire poi dei Beatles e dei Rolling Stones: tutti rimangono sconvolti dalla sua apparizione, perché semplicemente nessuno prima aveva suonato la chitarra in quel modo.
Partendo dal blues e dalla musica nera, Hendrix, grazie ad una tecnica mostruosa, porta prima lo strumento e poi la musica nel futuro. Trasforma in musica effetti sonori che prima di lui erano considerati rumore, cambia il concetto stesso di amplificazione, espande in modo rivoluzionario, attraverso l’uso dei pedali, le possibilità espressive della chitarra. Da appassionato cultore della fantascienza, immagina nuovi mondi e gli dà un suono destinato a rimanere nel tempo, al di là di ogni etichetta di genere.
I primi tre album sono capolavori: insieme alla Experience, Mitch Mitchell alla batteria e Noel Redding al basso, incide nel 1967, in meno di un anno, “Are You Experienced”, uno dei più grandi debutti di sempre (ci sono “Purple Haze”, “Hey Joe”, “Foxy Lady”) e “Axis: Bold As Love” (ci sono “Little Wing”, “Up From The Sky”). Poi nel 1968 registra il suo ultimo album in studio, il doppio “Electric Ladyland”, il più grande successo commerciale della sua carriera, con “Voodoo Chile”, la straordinaria cover di “All Along The Watchtower” di Dylan, “Crosstown Traffic”.
Nel 1967 l’America ancora non lo conosceva: Paul McCartney lo raccomandò agli organizzatori del festival di Monterey dove fu presentato al pubblico da Brian Jones. Su quel palco, il 18 giugno Hendrix e gli Experience misero in scena uno dei set più entusiasmanti della storia del rock. La sua attività era frenetica tra concerti in Europa e negli States e sedute di registrazione. Nel 1969 Noel Redding lascia la band sostituito da Billy Cox, amico di lunghissima data di Hendrix. La mattina del 18 agosto di quello stesso anno c’è un altro appuntamento con la leggenda: Woodstock. Jimi sale sul palco di mattina, dopo essere stato sveglio per tre giorni. La sua versione distorta dell’inno americano è una delle performance più importanti e sconvolgenti di sempre.
La verità è che, nonostante il successo, Hendrix era stanco di essere in balia del business, desiderava cercare strade nuove, si stava avvicinando al jazz, progettava persino un disco con Miles Davis e Gil Evans, suoi dichiarati ammiratori. Nel gennaio del 1970, per liberarsi da un contratto, registra un live con la Band of Gypsies, e cioè Billy Cox e Buddy Miles alla batteria, che uscirà postumo e che contiene “Machine Gun”, uno dei vertici della storia del chitarrismo. In agosto finalmente apre al Village di New York, gli Electric Lady Studios i suoi studi registrazione, il sogno della vita. Farà in tempo a registrare una jam session, poi partirà per l’ultima tournée della sua vita. Il 6 settembre, al festival dell’Isola di Fehmarn, in Germania, è la data del suo concerto finale.
Resta il rimpianto per quello che Jimi Hendrix avrebbe ancora potuto dare alla musica e alla creatività. Quello che ha fatto nella sua folgorante e breve carriera continua a sfidare il futuro. (ANSA)