”Il romanzo è finito. Gli innamorati si sono uniti, e il genio del bene, nelle vesti di Fomà Fomìc, ha preso a regnare in casa.
Qui si potrebbero dare molte e opportune spiegazioni, ma ora esse sono, nella sostanza, perfettamente superflue. Questa è almeno la mia opinione”. E’ un Dostoevskij segnato da una condanna a morte, da una finta fucilazione, dai lavori forzati che gli impediscono di scrivere e di leggere per un decennio null’altro che il Vangelo, quello che riemerge nelle pagine de Il villaggio di Stefancikovo e i suoi abitanti, che ora Castelvecchi ripubblica nella bella traduzione di Miriam Capaldo in occasione dei 200 anni della nascita del maestro russo.
”Quest’opera – scrive Capaldo nella sua nota al volume – a cui lavorò tra il 1857 e il 1858, viene tradizionalmente considerata – a torto – un romanzo ‘minore’ rispetto alla grande produzione del periodo seguente, essendo caratterizzata da una vena umoristico-satirica che si è ritenuta essere in contrasto con la visione antropologica e artistica del Dostoevskij maggiore”. E’ un testo inizialmente concepito come una commedia, che di questo genere mantiene ancora le tracce nell’impostazione delle scene e dei dialoghi. Ma, come scrive bene Erri De Luca nell’introduzione, ”è una pianta di teatro anche se Dostoevskij lo ha voluto narrare con le magnifiche digressioni e discrezioni permesse alla narrativa ed escluse alla scrittura teatrale. La forma è di romanzo ma con funzione di splendide note di regia, mentre la storia è affidata ai dialoghi dei protagonisti”.
Di Fomìc fa una macchietta e per questa sua tendenza al grottesco molti hanno accostato questo testo all’opera di Gogol, ma in realtà non c’è traccia della sua spietatezza, rileva giustamente De Luca, anzi qui affiora tutto il dolore del grande artista: ”ha un’esperienza umana passata attraverso prove certe, della specie che demoliscono o accendono la caloria della fraternità. Non solo la condanna a morte e la feroce farsa della fucilazione simulata. Gli anni di prigionia e di esilio gli hanno insegnato ogni scalfittura della macchina umana. Mancherà sempre di salire sul piedistallo di giudice davanti a un altro uomo”.
E in queste pagine questo dolore stempera la liberazione del riso che più volte affiora nella commedia umana che Dostoevskij mette in scena. Quasi a rimettere insieme, con commovente delicatezza, i pezzi della sua esistenza e leccarsi cautamente le ferite. In questo Il villaggio di Stepancikovo e i suoi abitanti è senza dubbio un testo unico.