Una pioggia incessante si abbatte su una cittadina subito a nord di Napoli, di quelle che oramai colpiscono anche il nostro paese, che finiscono per allagare tutto, ”le cantine, i bassi, gli scantinati, i negozi, la stazione della metro e quella della Cumana”, una sorta di diluvio universale che spazza via tutto, tanto che i tre protagonisti alludono anche all’Arca di Noè, dicendo che bisognerebbe accattarsela. E c’è anche un cavallo di razza che si ritrova sospinto dalle acque e finisce incastrato in qualcosa così che, sommerso, sino all’ultimo cerca di tenere alta la testa. In questa storia del resto, più o meno metaforicamente, finiscono per annegare tutti, e il cavallo è un simbolo, diremmo che rappresenta il più grande dei tre fratelli Corona, Carmine, quello con più autorità e che guida l’impresa di famiglia, ereditata dal padre, per la quale anche gli altri lavora con un loro preciso ruolo. Papele, il mediano, rozzo, tatuato e pelato per far più paura, con Rolex e catena d’oro è il giustiziere, operativo sul campo, mentre Ivano, il più piccolo di vari anni e anche il più minuto, quello che il padre ha fatto studiare e lavora nell’ufficio, vive da solo, ha la passione per la fotografia e mostra scatti di treni fermi, di volti sfocati dietro un vetro, malinconici e stranianti.
Una famiglia che, scopriremo, cresciuta con lo spaccio e la prostituzione, ora è una importante impresa edilizia cui nessuno si oppone per paura della ferocia dei loro metodi con chi non porta rispetto. I tre, nell’anniversario della morte del padre, ogni anno si ritrovano soli per ricordarlo e come a ristringere il loro patto di fratellanza, solo uomini, senza le famiglie, con mogli che telefonano, che vorrebbero si occupassero dei figli e non capiscono perché stanno facendo tanto tardi. Lo intuiamo dalle risposte, perché la loro voce e parole non fanno parte del racconto che, come una tragedia classica teatrale, ha unità di azione, tempo e luogo e vive dei dialoghi dei tre.
Questa volta, invece di andare al ristorante, sono a casa di Ivano, che è un buon cuoco e sa bene cosa piace ai fratelli, e li ha voluti lì perché deve dire loro una cosa importante. Lo precede Carmine con un suo annuncio, la decisione di candidarsi al consiglio comunale per occuparsi da lì della loro impresa, invece di corrompere politici costosi ad hoc, come spiega a Papele che lo prende in giro e non capisce. Poi il piccolo confessa che se ne vuole andare via, che non è come loro, che è stufo di nascondersi e fingere per i suoi gusti sessuali, e questo outing famigliare si rivela una bomba. Nel contesto in cui vivono e col ruolo pubblico e l’atteggiamento che hanno non è accettabile, ”fa schifo”, minerebbe l’onorabilità e quindi il rispetto della gente, tanto più che Ivano poi torna sui suoi passi e dice di voler restare e essere finalmente se stesso nel posto dove è nato e sempre vissuto.
L’idillio godereccio, tra cibi, vini e limoncello, le risate liberatorie si spengono e l’atmosfera si trasforma, mentre fuori il diluvio sommerge tutto, il pathos prende il sopravvento, specie in Papele, mentre Cramine si sforza di essere il logos, di mediare e far capire. Così finirà preda di sensi di colpa e il ”non avere detto niente” a un certo punto, mentre è in auto, non gli dà tregua, e sa che ”lo avrebbe seguito, inesorabile, per tutta la vita”, dilaniato tra affetti e doveri, tra il tenere la testa alta e il lasciarsi andare. E con le stesse parole e la stessa situazione questo incipit della storia, cui segue il flashback della cena, torna per riprendere il racconto della fine della serata, quando nulla e nessuno è più come prima, nel buio della notte e con l’acqua che si fa sempre più minacciosa.
La scrittura e i dialoghi hanno il ritmo di questo crescendo, ora più distesi, ora più sincopati, ora più pulita (Carmine per darsi alla politica segue lezioni on line per parlare in pubblico), ora più istintiva e sporcata di dialetto, sempre chiara, diretta e teatralmente coinvolgente. (ANSA).