Il malato immaginario, il misantropo, le preziose ridicole, l’ipocrita e molti uomini che invecchiando diventano egoisti e protervi per non sentirsi più deboli, sono i tipi umani che ha raccontato e portato sulla scena cogliendone con occhio comico i paradossi del loro tragico vivere, Jean-Baptiste Poquelin passato alla storia con lo pseudonimo di Moliere, di cui il 15 gennaio cadranno i 400 anni dalla nascita nel 1622. Autore prolifico, capocomico e grande attore sino all’ultimo giorno, essendo morto in scena il 17 febbraio 1673, per opera e vita è paragonabile solo a Shakespeare, morto sei anni prima, nel 1616. Per altro i due sono assai diversi, col Bardo inglese attratto da personaggi che, nel bene e nel male, vivono di grandi passioni e libero imprenditore e il francese che finisce per essere teatrante di corte che mette in berlina i comportamenti, le debolezze, i difetti più quotidiani di borghesi e aristocratici, sotto la protezione del Re Sole, Luigi XIV, che gli apre anche un teatro, Petit-Bourbon, e poi lo fa trasferire alla sala del Palais Royal.
Gli inizi però erano stati assai diversi per Poquelin-Moliere che, dopo studi di diritto, si era legato alla famiglia di attori Béjart e in particolare con la giovane Madeleine (di cui poi sposerà la figlia), creando a 21 anni la compagnia Illustre Théâtre, che fallì dopo due anni, mentre lui finì in prigione alla Chatelet. Così si trasferì a recitare per oltre dieci anni in provincia e fu la sua fortuna, grazie all’incontro a Lione con le compagnie italiane della Commedia dell’Arte da cui, tornato a Parigi nel 1658 sotto la protezione del fratello del Re, sono derivate le sue prime farse, dal ”Cornuto immaginario” a ”Il medico per forza” precedute da ”Le preziose ridicole” del 1659, in cui i personaggi già acquistano più spessore del disegno satirico generale che, col suo successo, suscitò un certo scandalo. Sicuro della propria arte e della forza della commedia, vista come critica dei costumi e correttrice dei vizi degli uomini (come sottolinea nella introduzione a ”Tartufo”), difende la propria libertà facendo riferimento direttamente al Re, che si diverte con lui, e per il quale, appassionato di danza, crea la Comédie-ballet, ovvero trova il modo di inserire nelle sue opere intermezzi coreutici, ma sempre legati allo sviluppo dell’azione.
Per capire il carattere di Moliere, la protezione regale, e l’indipendenza della sua scrittura c’è la vicenda legata a ”La scuola delle mogli”, suo primo grande testo che suscitò applausi ma anche attacchi e parodie, cui l’autore replicò da par suo con la ”La critica sulla Scuola delle mogli” e ”L’improvvisazione di Versailles”. Ma il vero problema fu poi nel 1664 ”Tartufo”, commedia che ”volendo strappare la maschera, rischiava di scorticare il viso”, come fu scritto, incentrata sull’ipocrisia dei falsi cortigiani, così che ebbe violente opposizioni che Moliere patì molto e poté andare in scena solo dopo cinque anni, a quel punto con un successo eccezionale per l’epoca, raggiungendo le 44 repliche. Certo uno dei suoi capolavori, con quel gioco che mette in scena un ipocrita, che etimologicamente e un attore, che recita spudoratamente il proprio ruolo sociale, puntando sull’azione, la gestualità comica, potenziata da una parola usata ad arte e con profondità di scavo. Col ”Misantropo” sono i vertici della sua arte, della commedia di carattere capace di farsi esistenziale, di cogliere gli aspetti più intimi e delicati in cui insinuare lo strappo comico, lo sberleffo che mette a nudo, durante un’azione concitata come nello scoprirsi invece di un’animo e un sentimento, la vanità del potere, la brama di denaro, ma soprattutto sempre l’amore, con i suoi trasporti, le sue sofferenze, le sue gelosie. Del resto il suo teatro migliore vive dell’illusione fallace (quasi pirandelliana) e lo scarto tra l’immagine che ognuno ha di sé e quella che vuol dare agli altri. Il tutto portato in scena, messo in evidenza dai modi d’essere, le parole e le azioni dei personaggi, senza schematismi o sovrastrutture.
Molti i suoi titoli, pur essendo morto abbastanza giovane, a 51 anni, ma con alle spalle almeno trenta di intensa attività.
Possiamo ancora citare ”Don Giovanni”, che segnò la fortuna di quel personaggio, poi il sottile e elegante ”Anfitrione” e l’incisività cruda del ridicolo ”George Dandin” cui segue il ritratto potente sino alla soglia del tragico de ”L’avaro” e il felice ritratto del vanesio e neoricco mercante del ”Borghese gentiluomo” del 1670. Seguono altri titoli e un altro capolavoro, ”Le saccenti”, sino al 1973 e l’ultima gustosa, buffa e dolorosa opera, ”Il malato immaginario”, alla quarta replica del quale Moliere, da tempo afflitto da un male incurabile, fu colto da malore e morì.
Con lui la commedia farsesca delle maschere e dei caratteri acquista complessità, diviene studio dei comportamenti e approfondimento dei sentimenti, debolezze e miserie umane, quelle di ieri e di sempre, di cui ancora oggi ci fa ridere, sempre un po’ amaro, implacabile ma con un filò di pietà, per quel disagio esistenziale che si fa difetto, malattia fisica in un processo di evidenziazione psicosomatica, teatrale, per cui il comico è solo una delle possibili rappresentazioni del dramma di vivere.
Per le celebrazioni ufficiali si sono messe in rete una serie di università francesi e di tutto il mondo, da Yale a quella di Torino, che hanno appena concluso un convegno alla Sorbona e alla Comédie-Française dal titolo “Retours sur Molière”. Altri convegni si terranno a New York e Yale (14-16 aprile) e a Torino (6-7 maggio), mentre una la grande mostra ”Molière, la fabrique d’une gloire nationale (1622-2022)” si aprirà proprio il 15 gennaio a Versailles, cui si aggiungeranno a Parigi dal 26 maggio ”Molière en costumes” e il 27 settembre ”Molière, le jeu du vrai et du faux”. (ANSA).