Martina Dei Cas è riuscita nell’intento: pubblicare “Angelitos” per far rimbalzare al di qua dell’Oceano Atlantico una vicenda di “ordinaria” violenza che altrimenti sarebbe stata dimenticata dopo che qualche articolo di giornale fosse scolorito e si fosse estinta l’eco di una delle poche commemorazioni. Una storia come tante in Guatemala quella di Angelito Escalante Pérez, 12 anni, sequestrato da una ‘mara’ di coetanei per arruolarlo, contro la sua volontà, nella banda. Il rito d’iniziazione consiste nello sparare a all’autista di un autobus carico di persone che procede nella loro direzione. Angelito si rifiuta e allora viene buttato giù da un ponte. Morirà dopo giorni di agonia in ospedale.
Una storia quasi banale nella sua semplicità: o fai ciò che ti diciamo oppure la pagherai cara; i rapporti nel Centro America sono sbrigativi e chiari. E’ la logica del ‘mata o mueres’, uccidi o muori. Angelito sognava di fare l’architetto e invece è finito per volare giù dal ponte più alto del Guatemala, il Belice, 125 metri. Non era morto subito, la sua caduta fu attutita da erbe e piante del pericolosissimo Barrio Jesus de la Buena Esperanza dove lo trovò suo padre, Luis, molte ore dopo, troppo tardi per salvarlo. Resistette due settimane in coma all’ospedale San Juan de Dios, poi il 4 luglio spirò.
Città del Guatemala è così: povertà, disoccupazione, ignoranza, e poi vernici o solventi industriali sniffati dai ragazzini per bloccare la fame o scongiurare la paura. Senza immaginare le conseguenze devastanti sul sistema nervoso e su quello respiratorio. Infine sincretismi religiosi incompleti, tra riti propiziatori delle divinità maya venerate dai indigeni e santi cattolici di ogni fatta che i criminali delle maras, insieme con il nome della banda di appartenenza, la Barrio 18 o l’antagonista Mara Salvatrucha, si tatuano su qualunque parte del corpo, perfino gengive e palpebre..
Una violenza senza volto né ragione: la mara cui appartenevano i ragazzini probabilmente era la Barrio 18. Un nome noto anche in Italia. Forse erano gli stessi giovani assassini di Angelito quelli che qualche mese dopo, alla fermata della metropolitana di Milano Rho, quasi mozzarono un braccio con un machete a un ferroviere che aveva chiesto loro di mostrare i biglietti.
Devastato dalle dittature, il Centro America sembra avere regole simboliche e il Guatemala è il Paese che ha conosciuto forse il più longevo dei despota, Efraìn Rìos Montt: trenta anni di massacri.
Nel 2017, quando Martina Dei Cas, il regista Luca Sartori e il fotografo Francesco Melchionda preparavano i bagagli per realizzare un servizio sulla storia di Angelito, apprendono che i principali interlocutori delle interviste che intendevano fare – il procuratore per l’infanzia e l’adolescenza Harod Augusto Flores Valenzuela e il difensore civico nazionale per i diritti umani di bambini e adolescenti Gloria Patricia Castro Gutierrez, gli stessi che avrebbero dovuto indagare sulla morte del piccolo – erano stati rinviati a giudizio per omicidio colposo, maltrattamento di minori e inottemperanza dei propri doveri d’ufficio. L’inchiesta era stata aperta in seguito al rogo di una casa-famiglia, la Hogar Seguro Virgen de la Asuncion di San José Pinula dove l’8 marzo 2017 erano morte 41 tra bambine e ragazze, chiuse a chiave nelle loro stanze. Non un incendio spontaneo: qualcuno lo aveva appiccato perché le piccole non denunciassero gli abusi subiti dagli assistenti sociali, quelli che avrebbero dovuto prendersi cura di loro.
Per la morte di Angelito, invece, non fu mai indagato nessuno.
Suo padre Luis fu invitato perfino a una cerimonia dal Presidente della Repubblica, Jimmy Morales, ma questo non cambiò l’iter giudiziario del caso. Anzi. Nell’estate 2018 Luis Escalante dopo varie minacce lasciò la pericolosissima Zona 6 per tornare in Nicaragua – Paese d’origine della famiglia – dove già l’anno prima si erano rifugiati la moglie Claribel Pérez e i figli per scampare alla morte.
E’ per queste ragioni che il libro ha patrocinio di Amnesty International Italia e del Centro per la Cooperazione Internazionale di Trento. E vuole essere un sasso lanciato in uno stagno: secondo dati del 2016 del ministero dell’istruzione guatemalteco, nella capitale un bambino su due ha paura di andare a scuola temendo di essere arruolato a forza dalla mara.
Un Paese che ha la povertà nel dna: racconta il credo religioso che Dio aveva finito la carne proprio prima di impastare il corpo dei popoli indigeni, dunque utilizzò mais. Fu per questo disagio sociale primitivo che il biochimico guatemalteco Ricardo Bressani nel 1959 inventò la incaparina, una miscela di farina di soia e mais, vitamine e minerali, utilizzata come integratore alimentare per combattere la malnutrizione tra la popolazione centroamericana. (ANSA).