“Perché la razza bianca non esiste secondo la scienza”, titolava qualche giorno fa Repubblica, rispondendo alla famosa boutade di Attilio Fontana con il parere degli studiosi dell’Associazione Genetica Italiana (Agi). Nulla di nuovo, sono anni che gli scienziati ci ripetono il concetto. E tuttavia, qua e là, qualche obiezione alla vulgata trapela. All’articolo di Repubblica, per esempio, si potrebbe opporre un esauriente approfondimento sul tema che giunge però a conclusioni opposte, eloquentemente intitolato “Razza: gli scienziati negano che esista ma i dati genetici lo confermano”. Il coraggioso testo è uscito su… Repubblica. Precisamente sul giornale del 22 marzo 2005, quindi 13 anni fa. È passato un po’ di tempo, ma nemmeno troppo. Eppure, a confrontare i due pezzi, sembra che ci sia in mezzo un secolo di differenza.
L’articolo del 2005, a firma Armand Marie Leroi, è in realtà la traduzione di un pezzo uscito qualche giorno prima sul New York Times. “L’idea che le razze umane non siano altro che costrutti sociali è opinione prevalente da almeno trent’anni. Ma ora forse le cose sono sul punto di cambiare”, scriveva con una certa audacia Leroi, dando anche conto di un’inchiesta della prestigiosa rivista Nature Genetics in cui due dozzine di genetisti venivano interrogati sulla questione. “Sotto il linguaggio specialistico, le frasi prudenti e la cortesia accademica, emerge chiaramente un dato: l’adesione alla tesi dei costrutti sociali si sta sfaldando. Alcuni sostengono addirittura che, se correttamente esaminati, i dati genetici dimostrano chiaramente che le razze esistono”. Hai capito. L’idea che la razza sia solo un “costrutto sociale” risale ad alcuni articoli degli anni ’70 del genetista di Harward Richard Lewontin, che si basava su un concetto espresso anche nell’altro articolo di Repubblica, quello più recente: geneticamente parlando, un africano e un europeo presi a caso non sono poi molto più diversi l’uno dall’altro rispetto a due europei. Uno statistico dell’università di Cambridge, A. W. F. Edwards, fece però notare che questo è vero solo prendendo un singolo gene, non osservando la loro combinazione. Scrive Leroi: “In sostanza ha preso un gene alla volta, non riuscendo a vedere le razze. Ma se si prendono in considerazione più geni variabili (qualche centinaio) è facile individuarle. Uno studio del 2002 condotto da scienziati dell’Università della California del Sud e di Stanford ha dimostrato che suddividendo con l’ausilio del computer un campione di individui provenienti da tutto il mondo in 5 gruppi diversi in base all’affinità genetica si ottengono gruppi originari dell’Europa, dell’Asia orientale, dell’Africa, dell’America e dell’Australasia che corrispondono in linea di massima alle principali razze secondo l’antropologia tradizionale”.
Un’altra obiezione classica, che ritorna nelle tesi dell’Agi, è che le razze non esistono perché ogni volta che si è provato a individuarle si sono avuti elenchi diversi. “Gli astronomi sono d’accordo su quali e quanti siano i pianeti del sistema solare, i chimici sono d’accordo su quali e quanti siano gli elementi”, scrivono i genetisti italiani, mentre sulle razze non c’è accordo. Tesi di imbarazzante ingenuità: i pianeti sono “cose”, quindi basta contarli, la razza è un criterio tassonomico che si applica alle cose, a seconda della logica della classificazione vi entreranno 10, 100 o 1000 elementi.
Ad ogni modo, se è la “razza bianca” che ci interessa, secondo Leroi “i miliardi di individui che nel mondo hanno discendenza prevalentemente europea presentano una serie di varianti genetiche comuni raramente riscontrabili tutte insieme in chiunque altro”. Certo, il criterio può talvolta essere semplificatorio, “ma è una semplificazione a quanto pare necessaria. E’ particolarmente penoso vedere i genetisti umani rinnegare ipocritamente l’esistenza delle razze pur indagando la relazione genetica tra ‘gruppi etnici’”. Ma perché riscoprire il concetto di razza potrebbe essere utile? Per esempio gioverebbe alla scienza medica: “Un afroamericano corre un rischio di ammalarsi di cardiopatia ipertensiva o di cancro della prostata circa tre volte maggiore rispetto ad un americano di origini europee, ma nel suo caso il rischio di sviluppare la sclerosi multipla è dimezzato”. Inoltre, “gli afroamericani rispondono poco ad alcuni dei farmaci principalmente usati nel trattamento delle cardiopatie – in particolare i betabloccanti e gli inibitori dell’enzima che converte l’angiotensina. Le ditte farmaceutiche ne tengono conto. Molti nuovi farmaci oggi portano l’ avvertenza che la loro efficacia può risultare ridotta per alcuni gruppi etnici o razziali”. È solo un esempio fra i mille possibili. Ma forse è già sbagliato di per sé dover giustificare il riconoscimento di qualcosa che esiste. Chiediamoci, semmai, perché è utile la negazione del dato razziale. Evidentemente si tratta di un ostacolo troppo grosso sulla strada dell’omologazione globale e della creazione di una post-umanità senza radici, progetto tutto ideologico in nome del quale si può anche riscrivere la scienza. (Fonte)